Liceo Marinelli, 2
novembre 2006
tel. 0432-556773
L’aggettivo “Aboriginal” ed il sostantivo “Aborigine” si
riferiscono alle “the original peoples living in Australia” (1), ma definiscono,
nella loro accezione primaria, le genti, gli animali e tutto quanto è
originario di un luogo e di un dato periodo di tempo. In un altro significato,
il termine assume la connotazione di “primitivo, selvaggio” e quindi inferiore alla civiltà occidentale.
L’interpretazione discriminante e fortemente spregiativa della parola è stata
la giustificazione alla base del trattamento infame ricevuto dalle popolazioni
“native” di tutto il mondo. Infatti, come ogni terra invasa e usurpata dai
colonizzatori europei, anche l’Australia, a partire dalla “scoperta” di James
Cook (1770, nel 1788, the first fleet di Arthur Phillips arriva nel porto
naturale di Sydney), ha subito l’imposizione della legge della forza e della
violenza che ha tentato di annientare la dignità della sua gente ‘aborigena’,
che aveva amato, rispettato e ‘custodito’ con amore la sua Terra da circa quarantamila
anni. Ancora più grave, i coloni del vecchio continente hanno applicato la
logica del possesso. Si sono arrogati il diritto di ritenere l’Australia una
“terra nullius”, dal momento che nessuno ne rivendicava il possesso, concetto
comprensibile ai soli occidentali. Si sono tuttavia dimenticati del fatto che
il “nuovissimo continente” non era tale, e che gli aborigeni vi avevano abitato
sin dagli albori dell’umanità.
A partire dai primi soprusi ai danni dei nativi, si è poi
verificato un crescendo, culminato con il tentativo – in parte riuscito,
purtroppo – di espropriarli delle loro radici e della loro cultura. È la storia
raccontata da Shakespeare in The Tempest (2) già nel Seicento, quando ancora
la brama di conquista degli imperi europei era agli albori: Prospero, il mago, portatore
di una civiltà ritenuta superiore, che soggioga il povero e deforme Caliban, nativo
dell’isola, rendendolo suo schiavo. Anche Daniel Defoe nel celeberrimo Robinson Crusoe (3) impone al nativo dell’isola il ruolo della sottomissione,
rendendo schiavo chi avrebbe l’autentico, sacrosanto diritto di vivere in pace
sulla propria terra.
Quando nel paese che ora conosciamo come Australia, giunsero
i colonizzatori, gli aborigeni dovettero subire ogni genere di espropriazione:
della terra, di lingua e cultura, perfino dei loro figli e figlie: il tutto in
nome di una auspicabile assimilazione
mai chiesta dagli indigeni.
Non potendo programmare ufficialmente un vero e proprio
sterminio, l’indottrinamento ai dogmi del Cristianesimo, l’obbligo di
esprimersi in inglese e il completo asservimento dei natives hanno costituito i capisaldi di una politica finalizzata
all’estinzione programmata della razza aborigena. Tale progetto era legittimato
dal criterio del Missing Link darwiniano,
che riconosceva nei neri –non solo d’Australia- l’anello mancante tra l’uomo
primitivo e l’evoluta civiltà europea, in grado di esplorare e assoggettare
interi continenti e imporsi grazie alla forza e al progresso raggiunto in ogni
campo.
L’aborigeno era dunque considerato inferiore sia nella
morale che nella mente oltre che privo di
cultura, e in quanto tale doveva essere annientato. I meticci erano
impiegati in modo utile per i bianchi essendo “senza dubbio” inferiori ad essi
per capacità intellettuali, e tuttavia più intelligenti dei neri, grazie al
possesso di alcuni geni bianchi, in grado di conferire loro capacità maggiori
rispetto ai parenti di pelle scura. Con il termine di “stolen generations” ci si riferisce a intere generazioni di bambini meticci, o “half castes”, strappati
dal governo australiano alle famiglie di origine e al loro ambiente per essere
destinati nelle missioni gestite da religiosi. Lo scopo dichiarato era di
educarli alla maniera britannica, insegnando loro i precetti del Verbo
cristiano, sottraendoli a un destino fatto di povertà e ignoranza, integrandoli
nella vita dei “nuovi australiani”. In molti casi si tratta di vero e proprio
“brainwashing”, anche se l’interesse dichiarato dai missionari è quello di
“save their souls”. Strano che questo buon proposito nella realtà si attuasse
con l’insegnamento di lavori manuali e domestici sgraditi ai bianchi. Lo scopo
reale era invece di porre termine, nell’arco di qualche generazione, alle
popolazioni aborigene, ritenute deboli ed arretrate in ogni ambito, e quindi
incapaci di sopravvivere nel mondo ‘moderno’. Inscritti in questo disegno di
largo respiro, i bambini nati da uomini bianchi e donne aborigene – molto
spesso frutto di stupri – avrebbero dovuto uniformarsi ai costumi importati dai
colonizzatori britannici, cancellando ogni possibile traccia di un passato che
legava in modo indissolubile gli aborigeni alla loro terra. Non tutti i meticci
però rientravano in questo progetto, tanto che i più scuri, aventi tratti
somatici più spiccatamente aborigeni, erano destinati a servire i nuovi
padroni. Gli uomini nei lavori più faticosi, le donne nelle faccende domestiche
come cameriere e governanti. Coloro nei quali era pressoché scomparsa ogni
traccia di gene aborigeno venivano invece proposti per l’adozione, in seguito
alla quale, istruiti come inglesi, sarebbero divenuti dei bianchi a tutti gli effetti. Ciò che fa riflettere ancora di più è
che questa politica governativa di imposizione culturale, di pulizia etnica e
sterminio programmato sia stata attuata nel ventesimo secolo, fra i primi anni 1930
e il 1969, anno in cui se ne segnalano gli ultimi episodi.
Molte testimonianze raccontano della vergogna di essere
riconosciuti aborigeni, come ad esempio la famiglia di quella Sally Morgan così
forte e determinata da andare a scavare in un passato che la madre e la nonna
avevano sempre cercato di seppellire (4). Alla piccola Sally era addirittura
stato detto che l’intera famiglia era di origine indiana, per non incorrere
nelle persecuzioni del governo, che si sarebbe accanito contro una donna
meticcia colpevole di non avergli affidato i suoi figli. Il paradosso è
evidente: era meglio essere ritenuti stranieri che non essere riconosciuti
nativi. Gli aborigeni erano così divenuti estranei nella terra che li aveva
generati e sostenuti. Molti però non hanno saputo reagire alla fitta rete di
imposizioni culturali e noncuranza per i loro diritti elementari. Questa totale
perdita di punti di riferimento ha diffuso in modo impressionante l’abuso di
alcool tra i soggetti più poveri ed esposti al degrado, specialmente nelle
periferie delle metropoli che andavano costituendosi.
Qualche secolo fa, in Australia si parlavano all’incirca
250 lingue aborigene e circa 700
varianti dialettali, mentre oggi, dopo la colonizzazione spesso violenta degli
europei e la ben nota politica razziale in vigore nel secolo scorso, ne
sopravvivono solo una trentina. Molti aborigeni parlano l’inglese come prima o
seconda lingua, mentre il secondo linguaggio più diffuso è il creolo, detto kriol. Si tratta del risultato della
reciproca contaminazione della lingua dei colonizzatori (l’inglese) e dei
colonizzati (le varianti linguistiche aborigene). Per evitare la sopravvivenza
delle lingue tradizionali aborigene nei soggetti “protetti” dal governo, alle stolen generations era tassativamente
proibito parlare in una lingua diversa dall’inglese, pena severe punizioni
corporali.
La scrittrice Sally Morgan e John Moriarty (Saltwater Fella) hanno avuto il coraggio
di non farsi schiacciare dai pregiudizi e dalla discriminazione dell’apparato
burocratico, ed hanno voluto ritrovare il loro passato aborigeno, rientrando
nel dreamtime. La volontà può rendere
grande anche chi grande non è, come nel caso di tre ragazzine (5) spinte a
percorrere migliaia di miglia nel deserto dell’ovest pur di riabbracciare la
famiglia nel villaggio natio (Rabbit Prof
Fence). Famiglia sottratta loro dall’ottusità di un burocrate fin troppo
scrupoloso nell’applicazione di leggi inique.
Insieme con la spiritualità e
il valore attribuito alla terra, le relazioni sociali a carattere parentale, o kinship, costituiscono l’ossatura della
società aborigena tradizionale. Il Dreamtime,
letteralmente “tempo del sogno”, è la fonte cui fanno riferimento le conoscenze
aborigene sul mondo, la sua creazione e le grandi storie che la raccontano. Il Dreamtime costituisce l’inizio della
conoscenza, il tempo antico in cui gli spiriti degli antenati totemici si erano
trovati ad operare. Gli antenati emersero dalla terra al tempo della creazione
del mondo, nell’attimo in cui si riversarono al di fuori della loro dimensione
eterna. Prima della venuta degli Ancestor
Beings, dotati di poteri soprannaturali, la terra non era altro che una
superficie piatta, immersa nel buio; sotto la sua superficie, si trovavano, in
uno stato di torpore, delle forme di vita sconosciute. La rottura della crosta
da parte degli Ancestors con una
forza incredibile diede avvio alla formazione del paesaggio nelle sue
manifestazioni più varie. Nei loro spostamenti, essi crearono tutti gli
elementi della natura così come noi li conosciamo oggi. Gli Ancestors diedero vita anche agli esseri
umani, di cui condividevano in parte l’essenza, e dopo il paesaggio formarono i
corpi celesti e tutti i pianeti del sistema solare. Infine, prostrati
dall’enorme mole di lavoro, tali spiriti si rimisero a riposare sotto la crosta
terrestre, e ripiombarono nel sonno, profondo e primordiale, dal quale si erano
svegliati. In molti casi, i loro spiriti si sono trasformati in rocce, alberi
imponenti o altri elementi del paesaggio. Tali luoghi dalla conformazione
particolare sono considerati sacri: gli aborigeni vi riconoscono la presenza di
spiriti sacri, capaci di infondere la vita. Alla terra in genere si tributa
grande rispetto, con peculiare distinzione rispetto ai luoghi considerati
sacri. Non esistono nella cultura tradizionale dei “confini” come i fences approntati dai coltivatori
occidentali per delimitare la proprietà: ogni individuo intrattiene delle
connessioni di tipo spirituale con la propria terra. Questa non è infatti un
semplice mezzo di sostentamento, una fonte di reddito o un tramite per la
crescita finanziaria: è un’entità non posseduta, ma verso la quale gli
aborigeni avvertono una speciale affinità e un rapporto ancestrale.
Il cacciatore aborigeno non uccide per divertimento:
prende dalla terra un animale necessario a sfamarlo, che verrà poi restituito
alla terra sotto forma di altri doni, tributati durante le cerimonie sacre o corroboree. Ogni individuo detiene la
conoscenza di uno o più Tjukurrpa (6), storie tramandate oralmente di
padre in figlio. Queste storie sono esse stesse un legame delle persone con un
determinato elemento della terra, capaci di ispirare la vita e le opere
artistiche di chi le conosce. In un’altra accezione, la parola Tjukurrpa rappresenta il mondo nella
percezione sensoriale degli esseri umani, ma anche il mondo spirituale che si
cela al di là della sfera sensoriale. La forza di questo concetto si
esemplifica al meglio nell’arte, che è sintesi di entrambi i suoi aspetti
principali. Gli artisti sono dunque guidati dal loro personale Tjukurrpa, e sotto la sua influenza
realizzano elementi pittorici che si stagliano in modo prorompente sul
paesaggio che li circonda. In questo modo, l’arte aborigena diviene sintesi del
visibile e dell’invisibile, che si palesano in una varietà di sfumature e di
interpolazioni, nelle quali non manca anche un’iconografia con forte potere
simbolico.
La società aborigena definisce chiaramente i ruoli dei
singoli, legati fra loro e all’intera comunità da kinship, rapporti di consanguineità o parentela. Nessuno è esente
da questa fitta rete di rapporti interpersonali, e di conseguenza tutti sono
soggetti alle sue leggi. Tutti sono accomunati dal profondo rispetto e dalla
reverenza per gli ancestors,
sentimenti dominanti negli odierni rituali aborigeni.
La vita comunitaria è scandita dall’aspetto cerimoniale,
che rinsalda il rapporto tra i gruppi aborigeni e antenati totemici. Ad
esempio, esistono cerimonie di iniziazione e per sancire il passaggio all’età
adulta, e alcune di esse sono appannaggio esclusivo delle donne, o degli uomini
del gruppo. Soprattutto l’arte ha una valenza rituale, cerimoniale, ed ogni
elemento dipinto o inciso, così come ogni danza o corroboree, hanno la funzione di ristabilire il contatto con gli
esseri soprannaturali che hanno dato origine alla terra. I canti e i cicli
pittorici sulla roccia o sulla corteccia – detti bark painting – riproducono gli spostamenti, gli atti e le
informazioni sulla genesi degli antenati totemici; l’intero corpus di informazioni, tramandato
oralmente, permette di tracciare anche i legami con altre tribù, distanti nel
tempo e nello spazio. Nella celebrazione dei riti sacred and secret, alla decorazione del corpo con disegni
ancestrali viene attribuita grande importanza. I simboli solitamente usati sono
piuttosto semplici, e per le storie più complesse si usano variamente combinati
fra loro. Contrariamente alla concezione occidentale, secondo cui la
propensione all’arte è una sorta di dono divino, nella tradizione aborigena non
è mai esistito alcun individuo classificato come artista, semplicemente perché ognuno lo è in quanto conosce i
soggetti sacri del suo clan. Non c’è mai stata distinzione terminologica in
termini di art e design: ogni forma d’arte e ogni danza sono considerate parte del Dreaming (7) e della vita quotidiana, parte di una wholeness unica nella sua organicità. Il Dreaming oggi è considerato un comune sostrato culturale e
spirituale, grazie al quale il popolo aborigeno può ricongiungersi al proprio
retaggio culturale più genuino. Un tempo, ogni adulto aveva l’obbligo di
conoscere e saper riprodurre correttamente i simboli del clan derivati dalla
loro eredità. Si poteva assumere un ruolo di prestigio all’interno della
comunità solo se in possesso di un consistente bagaglio artistico, sia in
termini di storie da raccontare tramite il linguaggio visuale, sia per quanto
riguarda le tecniche. La conoscenza quindi non è individuale; solo la
trasposizione delle storie in un contesto artistico è prodotta dai singoli. Il
pittore, designer o incisore non può
riprodurre miti di un altro clan, oppure non consentiti dal proprio. La perizia
dei singoli è determinata dall’esperienza, dalla completezza delle conoscenze
ricevute e dalla capacità di recepire i messaggi a carattere sacro. Nonostante
la natura collettiva delle espressioni artistiche, ogni artista è in grado di
veicolare, insieme alle storie sugli antenati, la propria dimensione
spirituale. La dimensione spirituale individuale e quella collettiva si fondono
nella riproduzione, che diventa un atto religioso, di riaffermazione del
rispetto agli ancestors che hanno
creato il mondo mentre erano assorbiti in un rapimento creativo. Ogni linea o
circolo, ogni elemento dei disegni ha un suo preciso significato simbolico:
sono le ‘vie dei canti’ o The Songlines: che
ripercorrono le tappe dell’andare degli antenati, roccia, pozza d’acqua,
albero, fiume, formica, canguro, dingo… tutte le creature si incontrano e
danzano insieme: ogni via, ogni canto, ogni passo è un filo sottile e mobile
nella ragnatela di suoni (web of life)
tessuta dagli antenati.
A differenza delle pitture attuali, nell’antichità si
dipingeva direttamente sulla terra o sulla roccia, con continui ritocchi dovuti
all’erosione degli agenti atmosferici. La tendenza attuale consiste nel
dipingere su diversi materiali, proponendo viste suggestive del paesaggio
oppure scene che raccontano la mitica creazione degli elementi del landscape. A seconda dei territori in
cui si pratica la pittura, i segni e i supporti artistici cambiano
rispecchiando la diversità del paesaggio che intendono ritrarre: per esempio,
lo stile puntinato e tratteggiato, combinato con linee tortuose, si usa per lo
più nel Central Australia e nelle aree desertiche; l’arte rupestre del Northern
Territory è carica di enfasi, con intrichi di linee anche molto complessi. Nel
North Queensland sono diffuse larghe bande bianche e rosse riprese dalla
pittura su corteccia (8), e si possono trovare sculture prodotte con cera
d’api; nel Kimberley, prevalgono le incisioni di forma geometrica, squadrata,
su conchiglie perlifere. Ciò che è sicuro, è che gli artisti aborigeni hanno
sempre saputo interagire con la natura circostante attivamente, con
flessibilità e capacità di adattamento, inserendo elementi vivi e moderni. Non
si sono mai “fossilizzati” sulla tradizione. La forza che ha permesso, ad una
cultura osteggiata in tutti i modi, di sopravvivere rinforzandosi e
incorporando elementi innovativi, è proprio l’estrema flessibilità di chi la
possiede.
Note
1) Oxford Advanced Learner’s Dictionary, Oxford University Press, 2002.
2) Shakespeare, William, The Tempest, Arden Shakespeare, London, 1999.
3) Defoe, Daniel, Robinson
Crusoe, Atheneum, New York, 1983.
4) Morgan, Sally, My
Place, Fremantle Arts Centre Press Perth, 1989.
5) Pilkington,
6) Lo stesso vocabolo aborigeno
definisce ciò che gli occidentali conoscono come Dreamtime, ed è presente sul territorio australiano in diverse
varietà, a seconda delle zone del continente e delle tribù di appartenenza; ad
esempio, per il popolo Arrernte è Alcheringa,
mentre in Central Australia è Warlpiri
(tutte queste forme assumono di solito più di una variante grafica). In
un’altra accezione, il termine si assimila alla categoria occidentale di
“arte”.
7) Tutto ciò che è conosciuto e
compreso, è il modo attraverso cui gli aborigeni spiegano la vita e la
formazione del mondo. L’idea di Dreaming
stabilisce la relazione dell’individuo con ogni creatura vivente ed ogni
elemento del paesaggio. Esso è personale e ognuno gli è legato attraverso il
proprio antenato totemico, che accompagna l’aborigeno per tutta la vita.
8) Praticata quasi esclusivamente nella
parte settentrionale dell’Australia, generalmente assente in altre zone.
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