ANTONELLA RIEM NATALE - ORIENTAMENTO E INTERCULTURA

Liceo Marinelli, 2 novembre 2006

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L’aggettivo “Aboriginal” ed il sostantivo “Aborigine” si riferiscono alle “the original peoples living in Australia” (1), ma definiscono, nella loro accezione primaria, le genti, gli animali e tutto quanto è originario di un luogo e di un dato periodo di tempo. In un altro significato, il termine assume la connotazione di “primitivo, selvaggio” e quindi inferiore alla civiltà occidentale. L’interpretazione discriminante e fortemente spregiativa della parola è stata la giustificazione alla base del trattamento infame ricevuto dalle popolazioni “native” di tutto il mondo. Infatti, come ogni terra invasa e usurpata dai colonizzatori europei, anche l’Australia, a partire dalla “scoperta” di James Cook (1770, nel 1788, the first fleet di Arthur Phillips arriva nel porto naturale di Sydney), ha subito l’imposizione della legge della forza e della violenza che ha tentato di annientare la dignità della sua gente ‘aborigena’, che aveva amato, rispettato e ‘custodito’ con amore la sua Terra da circa quarantamila anni. Ancora più grave, i coloni del vecchio continente hanno applicato la logica del possesso. Si sono arrogati il diritto di ritenere l’Australia una “terra nullius”, dal momento che nessuno ne rivendicava il possesso, concetto comprensibile ai soli occidentali. Si sono tuttavia dimenticati del fatto che il “nuovissimo continente” non era tale, e che gli aborigeni vi avevano abitato sin dagli albori dell’umanità.

A partire dai primi soprusi ai danni dei nativi, si è poi verificato un crescendo, culminato con il tentativo – in parte riuscito, purtroppo – di espropriarli delle loro radici e della loro cultura. È la storia raccontata da Shakespeare in The Tempest (2) già nel Seicento, quando ancora la brama di conquista degli imperi europei era agli albori: Prospero, il mago, portatore di una civiltà ritenuta superiore, che soggioga il povero e deforme Caliban, nativo dell’isola, rendendolo suo schiavo. Anche Daniel Defoe nel celeberrimo Robinson Crusoe (3) impone al nativo dell’isola il ruolo della sottomissione, rendendo schiavo chi avrebbe l’autentico, sacrosanto diritto di vivere in pace sulla propria terra.

Quando nel paese che ora conosciamo come Australia, giunsero i colonizzatori, gli aborigeni dovettero subire ogni genere di espropriazione: della terra, di lingua e cultura, perfino dei loro figli e figlie: il tutto in nome di una auspicabile assimilazione mai chiesta dagli indigeni.

Non potendo programmare ufficialmente un vero e proprio sterminio, l’indottrinamento ai dogmi del Cristianesimo, l’obbligo di esprimersi in inglese e il completo asservimento dei natives hanno costituito i capisaldi di una politica finalizzata all’estinzione programmata della razza aborigena. Tale progetto era legittimato dal criterio del Missing Link darwiniano, che riconosceva nei neri –non solo d’Australia- l’anello mancante tra l’uomo primitivo e l’evoluta civiltà europea, in grado di esplorare e assoggettare interi continenti e imporsi grazie alla forza e al progresso raggiunto in ogni campo.

L’aborigeno era dunque considerato inferiore sia nella morale che nella mente oltre che privo di  cultura, e in quanto tale doveva essere annientato. I meticci erano impiegati in modo utile per i bianchi essendo “senza dubbio” inferiori ad essi per capacità intellettuali, e tuttavia più intelligenti dei neri, grazie al possesso di alcuni geni bianchi, in grado di conferire loro capacità maggiori rispetto ai parenti di pelle scura. Con il termine di “stolen generations” ci si riferisce a intere generazioni di  bambini meticci, o “half castes”, strappati dal governo australiano alle famiglie di origine e al loro ambiente per essere destinati nelle missioni gestite da religiosi. Lo scopo dichiarato era di educarli alla maniera britannica, insegnando loro i precetti del Verbo cristiano, sottraendoli a un destino fatto di povertà e ignoranza, integrandoli nella vita dei “nuovi australiani”. In molti casi si tratta di vero e proprio “brainwashing”, anche se l’interesse dichiarato dai missionari è quello di “save their souls”. Strano che questo buon proposito nella realtà si attuasse con l’insegnamento di lavori manuali e domestici sgraditi ai bianchi. Lo scopo reale era invece di porre termine, nell’arco di qualche generazione, alle popolazioni aborigene, ritenute deboli ed arretrate in ogni ambito, e quindi incapaci di sopravvivere nel mondo ‘moderno’. Inscritti in questo disegno di largo respiro, i bambini nati da uomini bianchi e donne aborigene – molto spesso frutto di stupri – avrebbero dovuto uniformarsi ai costumi importati dai colonizzatori britannici, cancellando ogni possibile traccia di un passato che legava in modo indissolubile gli aborigeni alla loro terra. Non tutti i meticci però rientravano in questo progetto, tanto che i più scuri, aventi tratti somatici più spiccatamente aborigeni, erano destinati a servire i nuovi padroni. Gli uomini nei lavori più faticosi, le donne nelle faccende domestiche come cameriere e governanti. Coloro nei quali era pressoché scomparsa ogni traccia di gene aborigeno venivano invece proposti per l’adozione, in seguito alla quale, istruiti come inglesi, sarebbero divenuti dei bianchi a tutti gli effetti. Ciò che fa riflettere ancora di più è che questa politica governativa di imposizione culturale, di pulizia etnica e sterminio programmato sia stata attuata nel ventesimo secolo, fra i primi anni 1930 e il 1969, anno in cui se ne segnalano gli ultimi episodi.

Molte testimonianze raccontano della vergogna di essere riconosciuti aborigeni, come ad esempio la famiglia di quella Sally Morgan così forte e determinata da andare a scavare in un passato che la madre e la nonna avevano sempre cercato di seppellire (4). Alla piccola Sally era addirittura stato detto che l’intera famiglia era di origine indiana, per non incorrere nelle persecuzioni del governo, che si sarebbe accanito contro una donna meticcia colpevole di non avergli affidato i suoi figli. Il paradosso è evidente: era meglio essere ritenuti stranieri che non essere riconosciuti nativi. Gli aborigeni erano così divenuti estranei nella terra che li aveva generati e sostenuti. Molti però non hanno saputo reagire alla fitta rete di imposizioni culturali e noncuranza per i loro diritti elementari. Questa totale perdita di punti di riferimento ha diffuso in modo impressionante l’abuso di alcool tra i soggetti più poveri ed esposti al degrado, specialmente nelle periferie delle metropoli che andavano costituendosi.

Qualche secolo fa, in Australia si parlavano all’incirca 250 lingue aborigene e circa 700 varianti dialettali, mentre oggi, dopo la colonizzazione spesso violenta degli europei e la ben nota politica razziale in vigore nel secolo scorso, ne sopravvivono solo una trentina. Molti aborigeni parlano l’inglese come prima o seconda lingua, mentre il secondo linguaggio più diffuso è il creolo, detto kriol. Si tratta del risultato della reciproca contaminazione della lingua dei colonizzatori (l’inglese) e dei colonizzati (le varianti linguistiche aborigene). Per evitare la sopravvivenza delle lingue tradizionali aborigene nei soggetti “protetti” dal governo, alle stolen generations era tassativamente proibito parlare in una lingua diversa dall’inglese, pena severe punizioni corporali.

La scrittrice Sally Morgan e John Moriarty (Saltwater Fella) hanno avuto il coraggio di non farsi schiacciare dai pregiudizi e dalla discriminazione dell’apparato burocratico, ed hanno voluto ritrovare il loro passato aborigeno, rientrando nel dreamtime. La volontà può rendere grande anche chi grande non è, come nel caso di tre ragazzine (5) spinte a percorrere migliaia di miglia nel deserto dell’ovest pur di riabbracciare la famiglia nel villaggio natio (Rabbit Prof Fence). Famiglia sottratta loro dall’ottusità di un burocrate fin troppo scrupoloso nell’applicazione di leggi inique.

 

Insieme con la spiritualità e il valore attribuito alla terra, le relazioni sociali a carattere parentale, o kinship, costituiscono l’ossatura della società aborigena tradizionale. Il Dreamtime, letteralmente “tempo del sogno”, è la fonte cui fanno riferimento le conoscenze aborigene sul mondo, la sua creazione e le grandi storie che la raccontano. Il Dreamtime costituisce l’inizio della conoscenza, il tempo antico in cui gli spiriti degli antenati totemici si erano trovati ad operare. Gli antenati emersero dalla terra al tempo della creazione del mondo, nell’attimo in cui si riversarono al di fuori della loro dimensione eterna. Prima della venuta degli Ancestor Beings, dotati di poteri soprannaturali, la terra non era altro che una superficie piatta, immersa nel buio; sotto la sua superficie, si trovavano, in uno stato di torpore, delle forme di vita sconosciute. La rottura della crosta da parte degli Ancestors con una forza incredibile diede avvio alla formazione del paesaggio nelle sue manifestazioni più varie. Nei loro spostamenti, essi crearono tutti gli elementi della natura così come noi li conosciamo oggi. Gli Ancestors diedero vita anche agli esseri umani, di cui condividevano in parte l’essenza, e dopo il paesaggio formarono i corpi celesti e tutti i pianeti del sistema solare. Infine, prostrati dall’enorme mole di lavoro, tali spiriti si rimisero a riposare sotto la crosta terrestre, e ripiombarono nel sonno, profondo e primordiale, dal quale si erano svegliati. In molti casi, i loro spiriti si sono trasformati in rocce, alberi imponenti o altri elementi del paesaggio. Tali luoghi dalla conformazione particolare sono considerati sacri: gli aborigeni vi riconoscono la presenza di spiriti sacri, capaci di infondere la vita. Alla terra in genere si tributa grande rispetto, con peculiare distinzione rispetto ai luoghi considerati sacri. Non esistono nella cultura tradizionale dei “confini” come i fences approntati dai coltivatori occidentali per delimitare la proprietà: ogni individuo intrattiene delle connessioni di tipo spirituale con la propria terra. Questa non è infatti un semplice mezzo di sostentamento, una fonte di reddito o un tramite per la crescita finanziaria: è un’entità non posseduta, ma verso la quale gli aborigeni avvertono una speciale affinità e un rapporto ancestrale.

Il cacciatore aborigeno non uccide per divertimento: prende dalla terra un animale necessario a sfamarlo, che verrà poi restituito alla terra sotto forma di altri doni, tributati durante le cerimonie sacre o corroboree. Ogni individuo detiene la conoscenza di uno o più Tjukurrpa (6), storie tramandate oralmente di padre in figlio. Queste storie sono esse stesse un legame delle persone con un determinato elemento della terra, capaci di ispirare la vita e le opere artistiche di chi le conosce. In un’altra accezione, la parola Tjukurrpa rappresenta il mondo nella percezione sensoriale degli esseri umani, ma anche il mondo spirituale che si cela al di là della sfera sensoriale. La forza di questo concetto si esemplifica al meglio nell’arte, che è sintesi di entrambi i suoi aspetti principali. Gli artisti sono dunque guidati dal loro personale Tjukurrpa, e sotto la sua influenza realizzano elementi pittorici che si stagliano in modo prorompente sul paesaggio che li circonda. In questo modo, l’arte aborigena diviene sintesi del visibile e dell’invisibile, che si palesano in una varietà di sfumature e di interpolazioni, nelle quali non manca anche un’iconografia con forte potere simbolico.

La società aborigena definisce chiaramente i ruoli dei singoli, legati fra loro e all’intera comunità da kinship, rapporti di consanguineità o parentela. Nessuno è esente da questa fitta rete di rapporti interpersonali, e di conseguenza tutti sono soggetti alle sue leggi. Tutti sono accomunati dal profondo rispetto e dalla reverenza per gli ancestors, sentimenti dominanti negli odierni rituali aborigeni.

La vita comunitaria è scandita dall’aspetto cerimoniale, che rinsalda il rapporto tra i gruppi aborigeni e antenati totemici. Ad esempio, esistono cerimonie di iniziazione e per sancire il passaggio all’età adulta, e alcune di esse sono appannaggio esclusivo delle donne, o degli uomini del gruppo. Soprattutto l’arte ha una valenza rituale, cerimoniale, ed ogni elemento dipinto o inciso, così come ogni danza o corroboree, hanno la funzione di ristabilire il contatto con gli esseri soprannaturali che hanno dato origine alla terra. I canti e i cicli pittorici sulla roccia o sulla corteccia – detti bark painting – riproducono gli spostamenti, gli atti e le informazioni sulla genesi degli antenati totemici; l’intero corpus di informazioni, tramandato oralmente, permette di tracciare anche i legami con altre tribù, distanti nel tempo e nello spazio. Nella celebrazione dei riti sacred and secret, alla decorazione del corpo con disegni ancestrali viene attribuita grande importanza. I simboli solitamente usati sono piuttosto semplici, e per le storie più complesse si usano variamente combinati fra loro. Contrariamente alla concezione occidentale, secondo cui la propensione all’arte è una sorta di dono divino, nella tradizione aborigena non è mai esistito alcun individuo classificato come artista, semplicemente perché ognuno lo è in quanto conosce i soggetti sacri del suo clan. Non c’è mai stata distinzione terminologica in termini di art e design: ogni forma d’arte e ogni danza sono considerate parte del Dreaming (7) e della vita quotidiana, parte di una wholeness unica nella sua organicità. Il Dreaming oggi è considerato un comune sostrato culturale e spirituale, grazie al quale il popolo aborigeno può ricongiungersi al proprio retaggio culturale più genuino. Un tempo, ogni adulto aveva l’obbligo di conoscere e saper riprodurre correttamente i simboli del clan derivati dalla loro eredità. Si poteva assumere un ruolo di prestigio all’interno della comunità solo se in possesso di un consistente bagaglio artistico, sia in termini di storie da raccontare tramite il linguaggio visuale, sia per quanto riguarda le tecniche. La conoscenza quindi non è individuale; solo la trasposizione delle storie in un contesto artistico è prodotta dai singoli. Il pittore, designer o incisore non può riprodurre miti di un altro clan, oppure non consentiti dal proprio. La perizia dei singoli è determinata dall’esperienza, dalla completezza delle conoscenze ricevute e dalla capacità di recepire i messaggi a carattere sacro. Nonostante la natura collettiva delle espressioni artistiche, ogni artista è in grado di veicolare, insieme alle storie sugli antenati, la propria dimensione spirituale. La dimensione spirituale individuale e quella collettiva si fondono nella riproduzione, che diventa un atto religioso, di riaffermazione del rispetto agli ancestors che hanno creato il mondo mentre erano assorbiti in un rapimento creativo. Ogni linea o circolo, ogni elemento dei disegni ha un suo preciso significato simbolico: sono le ‘vie dei canti’ o The Songlines: che ripercorrono le tappe dell’andare degli antenati, roccia, pozza d’acqua, albero, fiume, formica, canguro, dingo… tutte le creature si incontrano e danzano insieme: ogni via, ogni canto, ogni passo è un filo sottile e mobile nella ragnatela di suoni (web of life) tessuta dagli antenati.

A differenza delle pitture attuali, nell’antichità si dipingeva direttamente sulla terra o sulla roccia, con continui ritocchi dovuti all’erosione degli agenti atmosferici. La tendenza attuale consiste nel dipingere su diversi materiali, proponendo viste suggestive del paesaggio oppure scene che raccontano la mitica creazione degli elementi del landscape. A seconda dei territori in cui si pratica la pittura, i segni e i supporti artistici cambiano rispecchiando la diversità del paesaggio che intendono ritrarre: per esempio, lo stile puntinato e tratteggiato, combinato con linee tortuose, si usa per lo più nel Central Australia e nelle aree desertiche; l’arte rupestre del Northern Territory è carica di enfasi, con intrichi di linee anche molto complessi. Nel North Queensland sono diffuse larghe bande bianche e rosse riprese dalla pittura su corteccia (8), e si possono trovare sculture prodotte con cera d’api; nel Kimberley, prevalgono le incisioni di forma geometrica, squadrata, su conchiglie perlifere. Ciò che è sicuro, è che gli artisti aborigeni hanno sempre saputo interagire con la natura circostante attivamente, con flessibilità e capacità di adattamento, inserendo elementi vivi e moderni. Non si sono mai “fossilizzati” sulla tradizione. La forza che ha permesso, ad una cultura osteggiata in tutti i modi, di sopravvivere rinforzandosi e incorporando elementi innovativi, è proprio l’estrema flessibilità di chi la possiede.

 

Note

1)     Oxford Advanced Learner’s Dictionary, Oxford University Press, 2002.

2)   Shakespeare, William, The Tempest, Arden Shakespeare, London, 1999.

3)   Defoe, Daniel, Robinson Crusoe, Atheneum, New York, 1983.

4)   Morgan, Sally, My Place, Fremantle Arts Centre Press Perth, 1989.

5)   Pilkington, Doris, Rabbit Proof Fence, Miramax Books, Hyperion, New York, 2002, first published in Australia: St. Lucia, University of Queensland Press, 1996.

6)   Lo stesso vocabolo aborigeno definisce ciò che gli occidentali conoscono come Dreamtime, ed è presente sul territorio australiano in diverse varietà, a seconda delle zone del continente e delle tribù di appartenenza; ad esempio, per il popolo Arrernte è Alcheringa, mentre in Central Australia è Warlpiri (tutte queste forme assumono di solito più di una variante grafica). In un’altra accezione, il termine si assimila alla categoria occidentale di “arte”.

7)   Tutto ciò che è conosciuto e compreso, è il modo attraverso cui gli aborigeni spiegano la vita e la formazione del mondo. L’idea di Dreaming stabilisce la relazione dell’individuo con ogni creatura vivente ed ogni elemento del paesaggio. Esso è personale e ognuno gli è legato attraverso il proprio antenato totemico, che accompagna l’aborigeno per tutta la vita.

8)   Praticata quasi esclusivamente nella parte settentrionale dell’Australia, generalmente assente in altre zone.

 

 


BIBLIOGRAFIA:

 

Studi antropoligici:

 

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·        Berndt, R., and C. Berndt. 1996. The Worm of the First Australians. 2d ed. Canberra: AIATSIS Aboriginal Studies Press.

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·        Strehlow, T.G.H., 1947. Aranda Traditions, Melbourne University Press, Melbourne.

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Sul Dreamtime e sugli aborigeni:

·        Bourke, C., Bourke, E., Edwards, B., 1994. Aboriginal Australia – An Introductory Reader in Aboriginal Studies, University of Queensland Press, St. Lucia.

·        Clarke, Philip, 2003.Where the Ancestors Walked – Australia as an Aboriginal Landscape, Allen&Unwin, Crows Nest, NSW.

·        Cowan, James, 1992. Aborigine Dreaming – An Introduction to the Wisdom and Thought of the Aboriginal Traditions of Australia, HarperCollins, London.

·        Flood, J., 2002. Rock Art of the Dreamtime, Angus&Robertson, Sydney, Australia.

 

 

Romanzi, racconti, autobiografie:

·        Chatwin, Bruce, 1987. The Songlines, London, Johnatan Cape, traduzione di Silvia Gariglio, 1988. Le vie dei canti, Milano, Adelphi.

·        Malouf, David, Dream Stuff, 2000. London, Chatto & Windus; traduzione di Franca Cavagnoli, La materia dei sogni, 2002. Milano, Frassinelli, (la storia Closer, Più vicino, è a pp. 34-44). Il titolo della raccolta è tratto dai versi 155-57, Shakespeare, The Tempest, IV, I: è Prospero che parla con Ferdinando: “We are such stuff / As dreams are mad on; an our little life / Is rounded with a sleep”.

·        Moriarty, John, 2000. Saltwater Fella: An Inspiring True Story of Success Against All Odds, Ringwood, Victoria: Viking.

·        Morgan, Sally, 1989. My Place, Fremantle Arts Centre Press Perth.

·        Pilkington, Doris (Nugi Garimara), 2002. Rabbit Proof Fence, Miramax Books, Hyperion, New York; first published 1996, St. Lucia, University of Queensland Press.

·        Pilkington, Doris (Nugi Garimara) and Olsen, Christine, Rabbit Proof Fence Screenplay, Currency Press Pty Ltd, Strawberry Hills, NSW, 2002.

·        Pilkington, Doris (Nugi Garimara), 2003 (1st ed, 1990). Caprice: A Stockman’s Daughter, St. Lucia, University of Queensland Press.

 

Film e video:

·        Beyond the Dreamtime, 1994. (video intervista al pittore Ainslie Roberts) directed by John Lind, Ronin Films, (54 min.).

·        Rabbit Proof  Fence, 2002. regia di Phillip Noyce, Miramax films, Australia/USA.

·        Ten Canoes, giugno 2006. regia di Rolf Heer, Fandango, (90 min.)

 

Sul pittore Ainslie Roberts:

·        Mountford, C., Roberts, A., 1974. The Dreamtime Book, Reader’s Digest Services, Sydney.

·        Mountford, C., Roberts, A., 1972. The First Sunrise, Rigby, Sydney.

·        Roberts, M.J., Roberts, D., 1988. Echoes of the Dreamtime – Australian Aboriginal Myths in the Paintings of  Ainslie Roberts, Dent, Melbourne.

 

Websites:

http://www.aboriginalartonline.com/forum.articles.html

http://www.roserworthy.adelaide.edu.au/

http://www.djalu.com/information/biography.htm

http://www.ciolek.com/WWWVL-Aboriginal.html

http://www.auslig.gov.au/mapping/names/natgaz.htm

http://unicorn.aiatsis.gov.au/index.html

http://www.daa.nsw.gov.au/daa/

http://www.yothuyindi.com/